PSICOANALISI

 

Propongo
che l’unica cosa di cui si possa essere colpevoli,
perlomeno nella prospettiva analitica,
sia di avere ceduto sul proprio desiderio

Jacques Lacan

Questa affermazione di Lacan è proprio una bella questione e suscita tante domande.
“Il proprio desiderio qual è?
Si può conoscere veramente?
Qualcuno lo conosce?
Il desiderio, quel desiderio che ci può muovere verso ciò che ci può in qualche modo appagare, è individuabile, perseguibile e raggiungibile?”

In modo definitivo direi proprio di no, perché è proprio il desiderio continuo di altro che ci muove e che, fino a che siamo in vita, ci alimenta.

Dunque, se conoscere in modo assoluto il proprio desiderio non è neanche possibile di che cosa si sta parlando?

Il problema del desiderio si pone perché, per lo più, noi viviamo secondo il desiderio degli altri, ben lontani dal nostro desiderio e appagamento. Oltretutto, se e quando qualcosa del nostro desiderio emerge dentro di noi, tendiamo a non dargli credito e, tanto meno, lottiamo per raggiungerlo.

Lottare, combattere, sono proprio le parole giuste, perché, quasi sempre, ciò che ci può dare un appagamento va in contrasto con gli altri e con i desideri, le ambizioni e le aspettative che gli altri hanno proiettato su di noi.

Per questo decidere di avere a che fare col proprio desiderio implica un lavoro, perché implica un movimento interiore profondo e non semplice, dal momento che nasciamo e cresciamo guidati dagli altri. Il nostro ingresso nel mondo è anticipato dal desiderio dei famigliari e dell’entourage di persone che ci ha circondato; tutti gli incontri che hanno caratterizzato la nostra formazione ci hanno influenzato e condizionato profondamente e in modo sempre più complesso man mano che siamo cresciuti. In qualche modo, chi ci ha aiutati ad entrare nel mondo e a sopravvivere nel mondo ci ha anche allontanati da noi stessi, dalla nostra soggettività e dalla nostra personale realizzazione.

Per questo arriva per molti, ad un certo punto della vita, la necessità di confrontarsi con se stessi per capire dove si è rispetto a se stessi; che cosa si è combinato e che cosa si stia combinando rispetto a se stessi.

Esisto?

Nel senso che mi chiedo: “La mia soggettività, il mio desiderio, nella mia vita, sono emersi in qualche momento e in qualcosa o sono rimasti totalmente invasi, condizionati, soppressi, annullati dalla domanda dell’altro?”

Il segnale che non stiamo vivendo secondo la nostra possibilità, sensibilità e volontà può essere un sintomo fisico o una sorta di disagio, scontentezza, insoddisfazione, sofferenza, ansia, fino a generare una vero e proprio stato di angoscia.

Analizzare che cosa ne abbiamo fatto della nostra vita, e dunque quale sia il nostro desiderio, può diventare, a un certo punto, indispensabile.

Non si tratta di eliminare qualcosa o qualcuno; nasciamo inermi e la nostra vita esiste solo all’interno del legame con l’altro e anche della dipendenza dall’altro, ma questa dipendenza va riconosciuta e ricollocata.

Spesso mi sento dire: “Non voglio essere come mio padre, o mia madre”. “Ho paura di essere o diventare come lui, o lei”.

Che lo vogliamo o no, noi siamo come nostro padre e nostra madre! Veniamo da lì! Ma lo siamo in parte, in un modo diverso, in una combinazione unica e irripetibile che dobbiamo scoprire affinché si produca uno spostamento della nostra posizione, che ci permetta di assumerci finalmente la responsabilità di una vita più consona a noi stessi e al nostro desiderio, quel desiderio rimasto nascosto e mascherato per così tanto tempo.

Questo recupero e rilancio di sé è il lavoro che propone la psicoanalisi.

Tacere l’amore

È una delle regole che Lacan ritiene indispensabile nel lavoro di analisi e chi deve tacere l’amore è l’analista.

Che cosa potesse voler dire tacere l’amore è ciò che più mi ha incuriosito, colpito, e poi affascinato della psicoanalisi.

Chi non ama i propri pazienti?

Chi non è mosso e anche commosso dalla loro sofferenza?

Chi non cerca di trovare e dare soluzioni al dolore che colpisce chi amiamo?

Questo “tacere l’amore” è stato qualcosa che ho voluto comprendere, nella sua accezione ed eccezionalità, perché intuivo che, in qualche modo, andava a toccare un punto dolente e rischioso dell’amare.

Amare!

Tutti ci proviamo, ma purtroppo la gran parte delle volte più che del bene facciamo del male, perché che cosa sia il bene dell’altro chi lo può sapere, dal momento che non lo sa il soggetto stesso? Ho compreso, alla fine, che l’amore che lo psicoanalista ha per il proprio paziente è efficace e agisce solo se passa attraverso un ascolto libero da ogni giudizio e pretesa di educare, raddrizzare, insegnare.

Lo psicoanalista non sa nulla del desiderio, del destino e delle possibilità del suo paziente, ma attraverso l’ascolto e la tecnica analitica può permettere al soggetto di manifestarsi a se stesso.

Nuovi sintomi

Negli ultimi settant’anni abbiamo assistito a un cambiamento culturale, sociale ed economico impressionante. Se nel dopoguerra il problema dei sopravvissuti era innanzitutto avere un tetto sulla testa e procurarsi qualcosa da mangiare, oggi il problema maggiore sembra essere sopravvivere all’interno di un’offerta di beni di consumo che disorienta e fa perdere la bussola rispetto a noi stessi, al nostro desiderio e soddisfacimento creativo.

Nel tempo moderno, i vincoli famigliari, religiosi, sociali e politici si sono affievoliti, fino quasi a scomparire e a confondersi; senza riferimenti stabili emerge, soprattutto tra i giovani, una sorta di isolamento o di abuso e fissazione su oggetti ormai di largo consumo, che in qualche modo creano eccitazione, dipendenza, indifferenza.

Se dovessimo individuare il denominatore comune alle variegate forme che assume il disagio contemporaneo famigliare e sociale, come depressione, attacco di panico, anoressia, bulimia, dipendenza tecnologica, tossicomania, bullismo e via dicendo, potremmo dire che c’è una sorta di fatica soggettiva alla creatività, a interessarsi, a desiderare o ricercare qualcosa che vada oltre l’isolamento o la dipendenza. Nella dipendenza il soggetto perde il rapporto con l’altro ed entra in un cortocircuito che lo spinge a essere in rapporto sempre più stretto ed esaustivo con un oggetto da cui il proprio corpo dipende.

Coinvolge sempre più persone una solitudine reale, dove il rapporto con l’altro è veicolato dall’oggetto e non passa più attraverso la comunicazione e l’interazione diretta e creativa; questa solitudine porta in sé un dolore ad esistere, una sorta di depressione e spegnimento della vitalità.

Nella traumaticità della realtà e nel mutismo che ci circonda o ci isola in un contatto esclusivo con l’oggetto eletto come partner (alcol, droga, gioghi, cellulare, ecc.), la parola e l’ascolto devono essere messi al lavoro.

Penso che ogni vita abbia la sua forma e la sua sostanza specifica, unica e irripetibile, una sua risorsa e creatività. Se non siamo in grado di coglierla dobbiamo interrogarci, e la parola che passa attraverso l’Altro (l’analista) può andare a ricercare e a indagare qualcosa che non riusciamo più a vedere o a sentire, ma che ci riguarda profondamente perché riguarda il senso, il nostro desiderio, la nostra felicità e realizzazione.

La parola che incontra un ascolto che non giudica, non dice come uno è fatto, non spiega come e cosa si deve fare, non si pone come una pedagogia autoritaria e non prescrive pene o soluzioni, è una parola che può riaccendere la vita, che può aprire ognuno al riconoscimento delle molteplici lingue e dei molteplici mondi che ci abitano, così da renderci più aperti nei confronti della realtà, evitando che rimaniamo chiusi, isolati, traumatizzati, nell’incontro con gli altri e con la realtà.

Questa è l’offerta specifica della psicoanalisi.

 

Dott.ssa Miriam Malfatti, dietologa, omeopata, psicoterapeuta, psicoanalista, il suo studio si trova a Milano.